Everybody lives

Richiamato per risollevare Doctor Who dall’abisso in cui l’avevano precipitato le ultime gestioni, Russel T. Davies torna portandosi dietro i suoi campioni, Catherine Tate e soprattutto David Tennant. Il risultato sono tre special, tra cui un piccolo capolavoro, Wild Blue Yonder.

Una volta riavuto il suo Dottore però RTD non lo lascia più andare, e s’inventa la bi-generazione per farlo sopravvivere all’nevitabile arrivo del nuovo Dottore, parcheggiandolo poi a casa di Donna, in attesa del prossimo special. Dfficile dispiacersene, purché l’Everybody Lives non divent la cifra – Disney – della nuova gestione.

Mutazioni

Better Call Saul è diventato come il video d’una telecamera di sorveglianza: 3 minuti di azione su 10 ore di filmato.
Per fortuna il season finale Winner vale da solo tutta la quarta stagione.

La mutazione subita da Z Nation invece è terminale. Quella che era una serie visionaria e beffarda è stata trasformata in un pippone sul dovere morale di precipiitarsi a voare Partito Democratico nelle elezioni USA di mid-term.

Il politically correct ha preso il sopravvento su qualsiasi altra cosa anche nel nuovo Doctor Who di Chris Chibnall. Ogni episodio ha un’esplicita morale “progressista”, e un’esplicita presa in giro di Donald Trump.
Dal punto di vista strettamente creativo, Chibnall s’è finora dimostrato un Russell T. Davies in sedicesimo: filosofia simile, ma talento notevolmente inferiore.
Solare e un po’ pazza, la sua Thirteen è infatti una versione semplificata di Ten, senza lati oscuri, senza misteri, senza difetti. Un Ten light.
Jodie Wittaker, la prima donna a interpretare il ruolo del Dottore, avrebbe meritato un personaggio più originale della versione analcolica d’un suo predecessore.

La scelta del killer

Boomtown di Russell T. Davies (Doctor Who, 2005) suggerisce un’intuizione geniale e inquietante: i carnefici di massa, i burocrati dello sterminio, quando scelgono occasionalmente qualcuno da risparmiare usano all’inverso gli stessi criteri soggettivi e arbitrari adoperati dai serial killer per scegliere le loro vittime. Il colore dei capelli, degli occhi, un sorriso, uno sguardo, un incontro casuale con il carnefice che finisce per decidere il destino della vittima: sommersa o salvata.

Corrado (Paolo Pierobon) protagonista de L’ordine delle cose di Andrea Segre (2017) che ne sia più o meno consapevole, è un carnefice di massa, un burocrate dello sterminio, abituato alla disumanizzazione sistematica delle vittime, che per lui devono restare solo numeri. Un incontro casuale, e un attimo d’empatia imprevista decideranno quale vittima del lager cercherà di risparmiare, solo per un attimo, prima di riconsegnarla all’ordine delle cose. 

The Doctor Fails

Cominciata col maldestro tentativo di imitare la formula del precedente showrunner Russell T. Davies, l’ultima stagione dell’era Moffat di Doctor Who è proseguita con un’avvilente serie di pessime copie di episodi precedenti, che tentavano di riprodurne la lettera, fallendo miseramente nel coglierne lo spirito.

Purtroppo però il peggior fallimento è stato riportare in scena il Master di John Simm azzerandone completamente la complessità e l’umanità, per ridurlo a una specie di spalla ottusa e stizzosa per l’insopportabile birignao di Missy, e defraudarlo della stupenda uscita di scena di The End of Time.

Il pippone autocelebrativo di Twelve su quanto sia gentile a sacrificarsi per i coloni sull’astronave ha poi dimostrato come Moffat non capisca la differenza fra scrivere DI un personaggio, e scrivere PER un personaggio.
È vero, il Dottore aiuta il prossimo per gentilezza e senso di giustizia, ma è cosa diversa farglielo proclamare ad alta voce.
È come se Gino Strada si mettesse a dire di se stesso “Guardatemi, potrei fare miliardi con la chirurgia plastica, e invece sto al fronte a ricucire le panze ai pezzenti, SONO UN SANTO!”

La stagione s’è chiusa con la replica per Bill dell’happy ending di Clara, l’imitazione di Twelve dell’iconico addio di Ten, e il preoccupante annuncio che nel suo ultimo episodio, lo special di Natale, Moffat cercherà ancora una volta d’inserirsi nella storia passata della serie per riscriverla – e rovinarla – a sua immagine.

Master SF

masterfulxrhythm: “ itdoesntgethotterthanjohnsimm: “ thirtysecondstomaroon5: “He’s back… ” “Did you miss me?” ” //Okay but can I just wail with joy about this image. Because even encapsulated within two seconds at best, it’s indubitable that John...L’ultima stagione della sua era si apre con una plateale resa di Moffat alla ricetta del predecessore Russell T. Davies, a cominciare dal tentativo di creare una companion credibile e umana come quelle dell’era RTD. Bill Potts, un vero sollievo dopo anni di Impossible Girls.
Più simile per umanità ai Dottori daviesiani è diventato anche Twelve, cambiando drasticamente carattere ancora una volta, dopo i fallimentari tentativi di farne prima uno Sherlock spaziale, e poi un Eleven senile.
Twelve è l’unico Dottore a cambiare completamente personalità senza bisogno di rigenerarsi.
La resa più clamorosa di Moffat sembra essere però l’annunciato ritorno del Master di John Simm.
C’è da augurarsi che sia una resa completa, che il Master sia in character, e che sia tornato per restare.

There’s something on your back, Doctor

Con uno special natalizio d’una stupidità deprimente è cominciato l’ultimo anno della disastrosa gestione Moffat.
Chris Chibnail dovrà faticare parecchio per recuperare la serie dal cassonetto nel quale è finita, e non solo qualitativamente.

La reazionaria e pasticciata restaurazione di Gallifrey non è l’unico retcon a rendere totalmente incompatibile l’era Moffat con la precedente.
L’aver cancellato dalla memoria degli umani il ricordo di tutti i precedenti incontri con alieni, eliminando così anche l’indispensabile backstory di Adelaide Brooke; l’aver cercato di spargere Clara lungo tutta la timeline del Dottore, nel pretenzioso quanto vano tentativo di farne “la companion più importante di tutti i tempi”; il finale del farsesco The Husband of River Song, nel quale Twelve rivela improvvisamente a River quando e dove lei morirà.
Per non parlare del pastrocchio di Trenzalore, pianeta sul quale il Dottore sarebbe dovuto morire per poter incontrare Clara, e dal quale è tranquillamente uscito vivo, incapsulando così tutta l’era Moffat in un enorme paradosso.
Come un sub-universo creato da un parassita alieno, lo scarafaggio di Turn Left.
Un sub-universo stercorario da far collassare al più presto.

Dopo mezzanotte

listen.jpgÈ emblematico come gli episodi peggiori di Moffat siano quelli più velleitari.
Ogni volta che tenta di filosofeggiare fallisce così miseramente da totalizzare quantità industriali di fremdschämen.
L’esempio più rappresentativo è Listen, l’episodio nel quale Moffat spedisce il suo Dottore a caccia dei propri demoni interiori, e contemporaneamente ci infligge il primo appuntamento di Clara e Danny.
Il fatto che il suo Dottore abbia aspettato di superare i 2000 anni per andare a caccia dei propri demoni interiori, e soprattutto che ad oltre 2000 anni d’età non abbia ancora capito che sono per l’appunto interiori, è patetico almeno quanto il suo continuo interrompere la ricerca per stalkerare Clara, e costringerla in un ambiguo ruolo materno che finisce per farne la diretta responsabile del suo particolare ridicolo trauma primigenio.
Ah, le donne.
Listen viene definito dai suoi fans la “risposta” di Moffat a Midnight, il capolavoro disturbante e attualissimo di Russell T. Davies sulla paranoia xenofoba.
In realtà Listen è la controparte di Midnight solo come Kill the Moon è il Nadir dello Zenith di The Waters of Mars.

Mezzanotte è passata. Moffat sta finalmente per fare le valigie.
14 episodi all’alba.

Tempo scaduto

teotAl netto degli eccessi da series finale, The End of Time è uno dei migliori episodi di Doctor Who, e uno dei testi più politici di Russell T. Davies.
The End of Time ci dice esplicitamente che le nostre rapaci e guerrafondaie classi dirigenti che stanno portando il mondo alla rovina devono essere spazzate via, senza se e senza ma.
Si tratta della nostra sopravvivenza o la loro.
Un messaggio rivoluzionario nel senso letterale del termine, che Moffat s’è ovviamente affannato a cercare di cancellare, prima col retcon di The Day of the Doctor, che senza vergogna afferma l’imperativo opposto di preservare a tutti i costi quelle stesse classi dirigenti rapaci e guerrafondaie.
Poi con The Time of the Doctor, nel quale il suo Eleven infligge agli abitanti di Trenzalore una guerra millenaria che avrebbe potuto evitargli del tutto semplicemente andandosene, e viene ricompensato per questo con un nuovo ciclo di rigenerazioni dai rapaci e guerrafondai Time Lords che ha preservato.
E infine, con l’indegna pantomima di Hell Bent, nel quale il suo Rassilon, inspiegabilmente immemore della propria ferrea determinazione a distruggere l’universo pur di conservare il potere fino all’ultimo, si rivela improvvisamente disposto a cederlo subito a gentile richiesta.
Perché Moffat ci tiene a farci credere che i dittatori alla Erdogan siano in fondo solo vecchietti un po’ burberi, come i cloni di Scrooge che puntualmente infestano ogni suo special natalizio.

Ancora una volta c’è uno Zenith, The End of Time, e un Nadir, la trilogia Gallifreyana di Moffat.
Il suo tempo però è in scadenza.
Speriamo torni finalmente quello delle sceneggiature decenti.